jueves, 17 de febrero de 2011

IRLANDA - DA DOVE SI RIPARTE? I fantasmi di un paese

IRLANDA - DA DOVE SI RIPARTE?
I fantasmi di un paese
John Waters


C’era una volta il boom. Vent’anni di crescita e benessere. Poi è arrivata la crisi. E la disoccupazione, i senzatetto, il ritorno dell’emigrazione...
Ma che cosa sta succedendo davvero alla «Tigre Celtica»? Viaggio (accompagnati da una guida d’eccezione)?in una società che ha tagliato troppo in fretta i ponti con la tradizione senza decidere verso «cosa» andare. E che ora aspetta qualcosa

A quanto pare - almeno come sostiene la gran parte delle cronache sull’attuale situazione dell’Irlanda - gli ultimi due anni hanno cancellato due decenni di progresso, prosperità e costruzione di fiducia. Questa affermazione parte dal presupposto che il progresso, la prosperità e la fiducia fossero radicati fortemente nella realtà. Ma non è così.
Sì, gli irlandesi oggi sono costretti a ripensare tutto da capo. O, per lo meno, forse dovranno ripensare tutto, una volta che avranno smesso di attribuire colpe, sfogare la rabbia, recriminare, cercare capri espiatori per la disintegrazione del sistema bancario e la perdita del benessere che molti avevano iniziato a ritenere uno stato di cose naturale.
A crollare, negli ultimi due anni, è stato il modello materialista, sorto in reazione a un’Irlanda tradizionalista, ritenuta fallimentare. Per molti versi, quel che è accaduto era diretta conseguenza del genere di progresso e prosperità perseguiti da chi ha guidato il Paese nell’ultimo mezzo secolo. Cinquant’anni in cui l’Irlanda è stata teatro di una serie di battaglie in cui tradizionalisti e modernizzatori si sono scontrati su questioni di natura profondamente simbolica: da un lato, i primi si aggrappavano all’immagine di un’Irlanda devota e timorata di Dio, che rifuggiva il materialismo e si vedeva incarnata nei principi di una fede semplice, che voleva tener fuori la minaccia del mondo moderno; i modernizzatori, dall’altro lato, sostenevano che, per diventare una nazione prospera e dinamica, l’Irlanda avrebbe dovuto voltare le spalle alle semplici verità del passato, abbracciare il pluralismo, l’uguaglianza e la libertà, valori che si ritenevano antitetici alle cose semplici di un tempo. Questa lotta ideologica è stata una scelta illusoria, perché ha portato alla frattura tra passato e futuro.
Se torniamo indietro di una decina d’anni alla ricerca delle radici dell’attuale crisi, ci scopriremo a osservare le rovine di una politica economica ingenua: la folle tendenza all’indebitamento, una bolla immobiliare gonfiata dall’illusione collettiva di essere impermeabili ai normali fattori di rischio, e una conseguente strategia fiscale: una Torre di Babele che già ondeggiava al vento. Ma questa è solo la punta dell’iceberg, che non sfiora neppure le complesse questioni culturali scaturite da un certo modello economico. Dopotutto, l’Irlanda è un Paese ricco di cultura e risorse naturali, una terra tra le più fertili d’Europa, con un clima estremamente propizio all’agricoltura. Essendo un’isola, ha accesso a zone di pesca praticamente illimitate. Può vantare una tradizione letteraria ineguagliata. E la sua popolazione, circa quattro milioni di persone, non supera quella di una metropoli inglese o americana. Sulla carta, la popolazione irlandese dovrebbe potersi sostentare autonomamente con le risorse a disposizione.
Eppure, per la maggior parte dei novant’anni di indipendenza dall’Inghilterra, ha stentato a sopravvivere e a mantenere stabili i livelli demografici. Negli anni Trenta, e di nuovo nei Cinquanta, ha subìto una consistente emorragia di popolazione, tendenza che persiste fin dalle grandi carestie degli anni intorno al 1840. Dopo una breve tregua negli anni Settanta, l’emigrazione è ricominciata, per proseguire fino al miracoloso boom dei Novanta, che ha ribattezzato il Paese la «Tigre Celtica».
Le politiche moderne avrebbero dimostrato che, con le scelte economiche giuste, l’Irlanda sarebbe stata in grado di essere autosufficiente. Ma in realtà il Paese ha ceduto le sue risorse in cambio di quasi nulla. Oggi l’agricoltura irlandese si basa soprattutto sulla produzione di carne bovina e latticini. Se fate un giro in macchina nella celebre campagna irlandese, non potrete fare a meno di notare che solo una minima parte della terra è coltivata. Le aree di pesca sono sfruttate soprattutto da pescatori spagnoli. Il settore turistico è in stallo, perché non sappiamo decidere quale versione di noi stessi vogliamo promuovere: il kitsch tradizionalista o il dinamismo della modernità. La tradizione letteraria langue perché ha cessato di interrogarsi su se stessa.
Dopo un lungo periodo di stagnazione economica e culturale, gli anni Settanta sono stati una fase di crescita entusiasmante, grazie anche alla crisi di una visione tradizionalista dell’Irlanda. Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da una serie di “guerre civili” di natura etica: temi come aborto e divorzio sono diventati centrali nella lotta per il futuro. Nel 1992 si scoprì che un autorevole vescovo irlandese aveva un figlio adolescente in America; molti, che in cuor loro avevano iniziato a dubitare del modello cattolico loro inculcato, cominciarono a criticare apertamente quel sistema di valori. Quello fu solo il primo (e forse il meno grave) di una lunga serie di scandali.
La nuova prosperità non faceva altro che confermare la validità del programma di modernizzazione avviato.

Per mare o per terra? È difficile smentire questa tesi. I dati ufficiali indicavano che, eliminando l’attaccamento degli irlandesi alla tradizione, al nazionalismo, alla religiosità e alla propria identità, l’Irlanda si era aperta al mondo esterno creando un nuovo modello economico. Ma nessuno aveva previsto la vulnerabilità che ne sarebbe conseguita.
I due brevi periodi di ripresa economica negli anni Settanta e Novanta si sono basati soprattutto su due fenomeni: i deficit di bilancio e l’incentivo alla dipendenza. Il modello economico propugnato dai politici moderni rinunciava allo sviluppo delle risorse locali in favore di accordi con il mondo esterno. Così, l’Irlanda ha le più basse imposte sulle società al mondo, allo scopo di attrarre le multinazionali. I diritti di pesca sono stati ceduti nell’ambito dell’ingresso nell’Unione Europea, in cambio di fondi strutturali per costruire autostrade.
Per lungo tempo, in effetti, sono esistite due economie irlandesi: da un lato il settore industriale transnazionale che produce componenti per computer e farmaci, e un settore finanziario internazionale che gode di ottima salute. È stata questa “economia dell’intruso” a stracciare tutti i record negli ultimi vent’anni. Dall’altro, però, c’è l’economia autoctona, che ha scarsi risultati.
Se l’Irlanda dovesse fare affidamento su ciò che oggi è in grado di generare da sola, il popolo farebbe di nuovo la fame. Le politiche perseguite dai vari governi hanno puntato molto sul promuovere l’apertura all’economia globale, al fine di beneficiare della ricchezza di ritorno, della prosperità e del successo di altre società. C’è ben poco di irlandese in tutto questo. L’Irlanda è circondata dal mare, ma non sa se vuol essere un animale d’acqua o di terra: preferisce sopravvivere sulla cresta dell’onda generata dalle attività di economie più grandi.
I motivi di tutto ciò sono complessi e profondi. Riguardano la storia della Nazione, traumatica e piena di stravolgimenti, e in particolare la mentalità nata da quell’esperienza.

Il virus si riaffaccia. L’Irlanda non è mai stata una colonia in senso stretto, ma la natura dei rapporti con l’Inghilterra era essenzialmente coloniale, cioè basata sulla relazione tra schiavo e padrone. Dunque, i problemi - non saper sfamare il suo popolo, non riuscire ad apprezzare i doni ricevuti e non saperli sfruttare, la continua ricerca di una nuova dipendenza a cui abbandonarsi - sono tutti sintomo di un’esperienza storica che deve ancora essere assimilata a livello culturale.
Dopo l’indipendenza, l’Irlanda non ha mai smesso di domandarsi cosa può diventare, restando fedele a se stessa. I leader hanno scelto la strada più semplice e a breve termine: sfruttare gli aiuti dell’Unione Europea senza capire che questo ha un prezzo.
Il problema di fondo è, quindi, culturale: la mancanza di fiducia in noi stessi, anzi un odio per noi stessi inculcato nel corso di un processo di oppressione e dominio, un virus recalcitrante che resta dormiente a lungo per poi riaffacciarsi. Questo ha impedito al Paese di tracciare una nuova rotta, di tornare a immaginare, dopo la lunga dominazione, come affermarsi nel mondo contando sulle proprie energie e le proprie idee. Il risultato è una società che non trova valore in se stessa, che cerca le risposte solo nell’imitazione di ciò che altri, altrove, hanno trovato utile.
Un sintomo di questa malattia è il fenomeno dell’emigrazione che ha defraudato il Paese di energie giovani che in patria avrebbero potuto imporre un mutamento di pensiero. Ora l’emigrazione è ricominciata, e di nuovo minaccia di sabotare il processo di apprendimento che potrebbe scaturire dai problemi di oggi.
Per quanto riguarda la fede, questa nella cultura irlandese significa, in realtà, aderenza cieca a prescrizioni imposte: è quasi assente il senso di un legame tra ciò che la realtà offre e l’idea di Dio o di Provvidenza. Nella cultura dominante due correnti vanno per la maggiore: coloro che si aggrappano alla pura devozione e coloro che rifiutano ogni connessione tra cristianesimo e vita sociale. Dunque è impossibile identificare un punto da cui ripartire, se non nei meccanismi delle realtà economiche. Ne risulta un dibattito sterile, privo di fondamenti. La Chiesa irlandese offre pochi contributi utili alla discussione in seguito alle molte rivelazioni sugli abusi da parte del clero e sui relativi insabbiamenti.
Mentre attendiamo un deus ex machina, dunque, il dramma irlandese resta sospeso tra ripetitività e accanimento: un disco rotto che suona una canzone noiosa e falsa.
Sotto questi malanni si nasconde l’onnipresente questione generazionale: il ritmo naturale di avvicendamento si è spezzato. La generazione più anziana non vuole più delegare il potere verso il basso, si rifiuta di integrare la società con energie giovani.
Dunque, ogni ipotesi di soluzione sembra destinata a fallire e in genere il dissenso è confinato nel reazionarismo bilioso dei blog e delle rubriche radiofoniche, con le telefonate degli ascoltatori.

Un segno all’orizzonte. Anche qui occorre risalire alle origini. Dobbiamo aprire gli occhi e guardare a ogni cosa come se la vedessimo per la prima volta. Da dove oggi possa nascere una simile chiarezza, e come la si possa comunicare alle masse, è più difficile da stabilire. Ma la speranza sta nella convinzione che qualcosa accadrà: qualcosa di inatteso e imprevedibile. Il boom della «Tigre Celtica» di metà anni Novanta, malgrado le ripercussioni negative, ci offre almeno il ricordo di un evento che non avevamo pianificato. Un evento che semplicemente si è manifestato, esito di una convergenza di fattori che nessuno aveva compreso appieno. Possiamo essere certi che una nuova convergenza si realizzerà presto, con le stesse dinamiche: forse quando il cuore dell’Europa comprenderà che i fallimenti del recente passato non possono trovare rimedio nella riproposizione delle stesse politiche che li hanno generati, o nel dare ascolto alle stesse voci che caldeggiavano quelle politiche.
Insomma, aspettiamo che accada qualcosa senza sapere di che si tratterà.
Restituiti alla nostra condizione naturale, scrutiamo l’orizzonte in cerca di segni. Sono convinto che non dovremo attendere a lungo.

Revista Italiana Tracce

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